Cosa rende femminista una persona? Qualunque parola detta, qualunque azione fatta, qualunque pensiero concepito che vadano contro norme sociali consolidate che d’improvviso appaiono ingiuste o dannose. Parole, azioni e pensieri che, svuotati dalla vergogna, ci rendono liber*.
Ogni giorno ci sono persone che praticano il femminismo senza quasi rendersene conto. Ogni giorno qualcun* non vuole che venga praticato il femminismo per non mettere in discussione l’idea preconcetta della società in cui vive: va tutto bene se tutto rimane uguale.
Ma non funziona così. Se tutto rimanesse uguale, per non spaventare la gente, ogni progresso delle condizioni di vita dovrebbe essere annullato: le bambine e i bambini lavorerebbero ancora in fabbrica, nelle miniere o nelle strade; le donne non potrebbero lavorare per uno stipendio, ma solo fare da incubatrici e serve; si morirebbe ancora per il vaiolo.
Ogni volta che si levano scudi contro la parità dei diritti, si capisce che chi protesta per mantenere lo status quo non ha alcuna buona ragione per pensarla in quel modo, ma che anzi, inconsciamente, sa che quella convinzione non poggia su basi solide. E allora urla e strepita e perseguita. E di solito usa la forza, perché non ha altri argomenti.
Non tutt* abbiamo il coraggio di Ahoo Daryaei, la ragazza iraniana che si è spogliata nel campus universitario che frequenta, denunciando le condizioni di oppressione a cui sono sottoposte le donne nella sua nazione, e che è stata tacciata di essere malata mentale e rinchiusa per qualche tempo in un ospedale psichiatrico. In Italia dobbiamo ringraziare lo psichiatra Basaglia se non si è continuato a rinchiudere in manicomio le donne, perché considerate troppo libere o perché intralciavano i piani, come Ida Dalser, la prima moglie di Mussolini, internata insieme al loro figlio Benito Albino.
Ogni gesto però è importante, ogni vita vissuta nonostante le imposizioni e le aspettative della società, anche se il prezzo da pagare a volte è ed è stato molto alto.
Chi si ricorda di Caterina Martinelli, uccisa nel maggio del ’44 dalla polizia perché con altre donne della borgata romana aveva assaltato un forno per sfamare i suoi sette figli?
O di Ada Lovelace, autrice nel 1843 della Nota G, il primo algoritmo scritto per essere eseguito da una macchina, e considerata la pioniera dell’epoca informatica?
O della ragazza di Oppido Tramertina, in provincia di Reggio Calabria, rinchiusa e frustata dalla nonna per aver denunciato le violenze sessuali subite da un gruppo di giovani, fra cui i rampolli di alcune famiglie ‘ndranghetiste di Seminara, sempre nel reggino?
Che vogliamo vederlo o no, la società opprime tutte le donne. Per quale motivo dovrebbe, vi state chiedendo? Tanto per cominciare per i 45 miliardi di ore di lavoro domestico non pagato contro i 43 miliardi di ore di lavoro salariato: se dovessero pagare per il lavoro di cura fatto da più di 700 milioni di donne, che se ne occupano per il 75%, probabilmente non ci sarebbero abbastanza soldi sulla Terra.
Avete mai sentito parlare dello sciopero delle piscinine? Le piscinine erano apprendiste sarte e modiste fra i 5 e i 15 anni della Milano tra Otto e Novecento – piscinina in dialetto milanese vuole infatti dire piccola o sartina -, che percorrevano la città per consegnare vestiti su misura dagli opifici tessili. Al pari di molte altre bambine e bambini, ragazzi e ragazze che lavoravano senza tutela sia nelle campagne sia nella vorticosa industrializzazione della città, le piscinine non avevano quel “diritto al gioco” riconosciuto solo nel 1989 dalla Convenzione internazionale sui diritti dell’infanzia. Nel 1902 le piscinine, che facevano una vita durissima, sfruttate e bistrattate, la paga quasi inesistente, che s’imbruttivano prima del tempo e diventavano gobbe, indirono uno sciopero per protestare contro le condizioni di lavoro. Erano in centinaia, in quel giugno del 1902, a riunirsi davanti alla Camera del Lavoro di Milano, reclamando i loro diritti lavorativi. I quotidiani dell’epoca avevano trattato la protesta dall’alto in basso, prendendole anche in giro, dicendo che nel clima di quegli anni volevano scimmiottare le proteste degli adulti e consigliando loro di non mettersi ulteriormente in ridicolo. Eppure si erano organizzate, si davano degli appuntamenti, stilarono anche una lista di desiderata. Storica è la solidarietà nata tra le bambine, anche grazie a Carolina Annoni, una sindacalista ante litteram, che ha fatto tantissimo per le ragazze, le quali erano perlopiù di famiglie povere, spesso maltrattate in casa, e che in più subivano abusi dai capi o dai mariti delle maestre sarte per cui lavoravano. La mentalità diffusa era, allora come adesso, Di che ti lamenti, non te la sei andata a cercare?
Chuchu




