Come tutti i fatti umani, anche il femminismo nella sua storia ha attraversato diversi step evolutivi e si è declinato in numerose correnti che ne hanno determinato la ricchezza di contenuti ma anche, inevitabilmente, aspetti di scontro all’interno del movimento stesso. Contestualmente, man mano che passavano i decenni e il movimento si trasformava, si è sviluppata la consapevolezza che alcune sue emanazioni implicavano caratteri escludenti che si è cercato – e si cerca tuttora, non senza difficoltà – di superare.
Cercheremo di raccontarvi alcuni degli aspetti più problematici del discorso femminista, senza alcuna pretesa di esaustività.
Partiamo dal presupposto che gli esempi di protofemminismo risalenti all’antichità, al Medioevo e al Rinascimento (vedi per es. Christine de Pizan o Eleonora d’Aquitania) sono reperibili tutti all’interno di contesti privilegiati o in condizioni peculiari per cui si concretizzava la possibilità, anche per una donna, di studiare e sviluppare un approccio critico alla realtà e alla società: pertanto è inevitabile che l’inizio della storia di liberazione delle donne dal giogo maschile cominci con determinate caratteristiche e in ambienti colti e benestanti. Da notare, per inciso, che ogni volta che una donna poteva accedere all’istruzione, oltre che eccellere spesso e volentieri nelle materie di studio, acquisiva senza sforzo alcuno piena coscienza della disparità di genere e delle ingiustizie gravanti sulle donne.
Sviluppandosi in primis in area geografica europea e zone limitrofe, il primo femminismo si è concentrato prevalentemente sulla condizione delle donne bianche e occidentali (e, aggiungiamo, cisgender ed eterosessuali, in quanto bisognerà attendere la seconda metà del 1900 per sentir parlare anche di soggettività transgender ed omosessuali). Di queste prime espressioni del femminismo troviamo le radici culturali e filosofiche nell’Illuminismo, con riflessioni su uguaglianza sociale, differenza di genere, libertà e diritti fondamentali, mentre le radici politiche affondano nei dettami della Rivoluzione francese.
Sebbene l’attivista e drammaturga francese Olympe de Gouges parli già addirittura a fine Settecento, oltre che di diritti civili e politici delle donne, di temi all’epoca inusitati come divorzio e abolizione della schiavitù, la filosofa londinese Mary Wallstonecraft imposta le sue riflessioni prevalentemente sul principio di uguaglianza di genere, del diritto all’istruzione e del diritto all’indipendenza della donna dall’uomo.
Il discorso sui diritti politici, iniziato con la Rivoluzione, attraverserà poi i Paesi europei e nordamericani per culminare nelle proteste delle Suffragette e nell’ottenimento del diritto di voto nel Novecento.
Queste prime mosse del discorso femminista si organizzano in due correnti base: il femminismo liberale prima e quello socialista poi.
Il primo, anche detto mainstream o femminismo borghese, ha come obiettivi fondanti il riconoscimento dei diritti riproduttivi, del diritto d’aborto, del diritto all’istruzione e dei diritti politici, nonché la lotta alla violenza di genere. È un femminismo che proviene da donne che si trovano in una posizione sociale media o alta, con tutti i bias di privilegio che ne derivano.
Diversamente, il femminismo socialista, che prende piede nelle fabbriche e in contesti meno agiati sulla scorta delle lotte portate avanti dal socialismo, punta più all’emancipazione economica e sociale della donna, a rivendicazioni sindacali e alla distruzione del capitalismo, visto come ostacolo alla piena liberazione delle donne in quanto prodotto diretto della società patriarcale, che attraverso lo strumento della dipendenza economica mantiene le donne sottomesse agli uomini. È in tale corrente che troviamo finalmente istanze di maggiore inclusività e l’identificazione di sistemi di oppressione quali il razzismo e il classismo.
Tuttavia l’esperienza di oppressione delle donne bianche occidentali era ed è molto diversa da quella delle donne nere, indigene, o delle donne provenienti da contesti coloniali e postcoloniali, e questo ha portato per lungo tempo a ignorare le voci di quest’ultime.
Il colonialismo ha avuto un impatto devastante sulle donne dei paesi colonizzati, sottoponendole contemporaneamente alle discriminazioni di genere e a quelle razziali, nonché a ogni forma di violenza, oltre che alle disuguaglianze sociali ed economiche che derivano dalle strutture coloniali. Questi aspetti non solo non trovavano spazio nel discorso femminista tradizionale con prospettiva occidentale bianca, ma non potevano e non possono essere pienamente compresi dalle donne bianche.
Si deve attendere la seconda ondata femminista degli anni ‘60 del Novecento per assistere a un’evoluzione del pensiero con l’emergere del femminismo radicale: anch’esso nato tra le file delle donne della classe media europea e statunitense, ingloba la lotta alla discriminazione razziale, al capitalismo, al neocolonialismo e alla guerra (in quel periodo in particolare in riferimento alla Guerra del Vietnam). Il gruppo radicale delle Redstockings scrive nel suo manifesto programmatico del ‘69: “Le donne sono una classe oppressa. La nostra oppressione è totale e riguarda ogni aspetto della nostra vita. Siamo sfruttate come oggetti sessuali e di riproduzione, come personale domestico e come manodopera a basso costo. Siamo considerate esseri inferiori, il cui unico scopo è quello di migliorare la vita degli uomini. La nostra umanità è negata. Il nostro comportamento ci viene prescritto e imposto con la minaccia della violenza fisica […] Noi identifichiamo gli agenti della nostra oppressione negli uomini. La supremazia maschile è la più antica, la più basilare forma di dominio. Tutte le altre forme di sfruttamento e di oppressione (razzismo, capitalismo, imperialismo ecc.) sono estensioni della supremazia maschile: gli uomini dominano le donne, pochi uomini dominano il resto”.
È finalmente in questo periodo che, complice una progressiva apertura dei panorami di lotta, emergono le voci delle donne razzializzate, che hanno avuto un impatto enorme sul femminismo contemporaneo, aprendo nuovi orizzonti di comprensione e di progressione del movimento. Di seguito alcuni nomi a puro titolo esemplificativo e non esaustivo.
Anita Hill, docente e avvocata afroamericana, discendente da antenati nati tutti in condizione di schiavitù, attraverso la propria esperienza personale di vittima di molestie sessuali sul posto di lavoro, testimoniata davanti al Congresso Usa nel ‘91, ha fatto sì che la questione arrivasse al centro non solo del dibattito femminista, ma anche del dibattito pubblico, sfidando il sistema patriarcale che silenzia le donne vittime di violenza.
Alice Walker, scrittrice e attivista, ha rappresentato con forza le donne nere e lesbiche nel contesto della lotta per i diritti civili delle persone nere statunitensi. Sua figlia Rebecca Walker ha proseguito il lavoro aggiungendo alle istanze materne lo sguardo contemporaneo dell’intersezionalità e includendo nel discorso le persone queer, intersessuali e transessuali nonché il multiculturalismo di cui lei stessa è espressione. È stata lei a dare il via alla terza ondata femminista nel 1992.
La giurista Kimberlé Crenshaw nell’89 introduce per la prima volta il concetto di intersezionalità che espone un altro limite del femminismo tradizionale (ne abbiamo parlato nel nostro vocabolario alla voce “femminismo intersezionale”), il quale non è in grado di fornire risposte adeguate all’intersezione, appunto, tra i vari tipi di discriminazione che una donna può subire, per esempio per genere, etnia, classe sociale, orientamento sessuale.
La scrittrice e attivista bell hooks (pseudonimo tutto minuscolo per volontà stessa della sua creatrice) ha improntato la sua intera produzione ai punti di collegamento tra capitalismo, genere ed etnia e alle conseguenze devastanti di tali collegamenti in termini di oppressione delle categorie marginalizzate.
Sulla stessa falsariga si è mossa la sociologa indiana Chandra Talpade Mohanty, esperta di femminismo transnazionale e postcolonialista. In particolare ha messo in evidenza come il femminismo occidentale abbia creato la categoria universale – fondamentalmente errata perché ricolma di bias – della “donna del Terzo Mondo”, intesa come donna comunemente oppressa, povera e ignorante, trascurando totalmente le differenze tra donne del Sud del mondo e non dandosi mai pena di coinvolgerle direttamente nel discorso dando loro voce. Ci spiega invece Mohanty che le esperienze di oppressione delle donne variano moltissimo a seconda della zona geografica, dell’eredità storica e del contesto culturale, tanto da rendere vano oltre che fallace ogni tentativo di generalizzazione. Anche qui la lettura intersezionale è imprescindibile per comprendere la complessità delle dinamiche in gioco.
Un’altra frattura interna al femminismo è quella relativa al concetto di sesso biologico e identità di genere, che ha portato alla creazione del filone del femminismo transescludente, di cui negli ultimi anni si è rivelata accorata esponente la celebre scrittrice inglese JK Rowling. Anche dette TERF (trans-exclusionary radical feminists), queste femministe considerano come uniche “vere donne” quelle nate con genitali femminili e affermano che solo queste possano far parte della lotta femminista e godere delle sue vittorie e conquiste. Escludono quindi tutte le persone transgender, dalle quali si sentono fortemente minacciate: dalle battaglie per impedire alle donne trans di usare i bagni per donne in luoghi pubblici motivando la cosa con la paura di essere aggredite, a quelle per impedire la partecipazione delle donne trans alle competizioni sportive nelle categorie femminili adducendo presunti vantaggi derivanti dalla loro biologia, negli ultimi anni abbiamo sentito spessissimo queste femministe scagliarsi contro il loro bersaglio, finendo per trovarsi spesso dalla stessa parte della barricata di estremisti di destra, omofobi, razzisti.
Alla base di questa esclusione vi sono oltretutto diversi errori di fondo: la possibilità di partecipare alle gare sportive, che ancora è in divenire e varia in base alla competizione e allo sport, laddove sia possibile è comunque sottoposta al superamento di esami che accertino livelli di testosterone nel sangue identici a quelli delle donne cisgender. Inoltre gli studi scientifici hanno provato che le terapie cui sono sottoposte le donne trans per tutta la vita fanno sì che fisicamente abbiano la stessa forza delle loro colleghe cis, pertanto non vi sono motivi oggettivi per escluderle. Un altro errore nell’identificare come donne solo quelle cis nasce dal fatto che vengono totalmente escluse dal discorso tutte le donne intersessuali, che nascono con un corredo genetico in cui si trovano diverse combinazioni di cromosomi X e Y e non la comune doppietta XX. La variabilità con cui si presentano tali combinazioni nelle persone intersessuali è altissima e può generare variazioni fisiche genitali, variazioni alle gonadi, variazioni ormonali, ermafroditismo, differenze nell’aspetto fisico o nessuna differenza visibile alla nascita ma presenza di cromosoma Y nel corredo e così via: è quindi chiaro che non si può generalizzare e categorizzare rigidamente cosa determini chi è donna e cosa no, essendo la natura per sua stessa definizione fluida e infinitamente mutevole.
Vorremmo infine porre l’accento anche sulla questione dell’abilismo interno al femminismo.
Se l’abilismo è stato per quasi tutta la storia umana un’ipoteca pesantissima al progresso come società equa e inclusiva, e solo in tempi recentissimi si è cominciato a riconoscere le persone disabili come membri della società che hanno gli stessi diritti di quelle abili, se ancora oggi il mondo è costruito a misura di persona abile e solo adesso si stanno facendo più insistenti le voci delle persone disabili per progettare una società, delle città, delle infrastrutture – un mondo insomma – che le includa, ma ancor più e ancor prima che preveda la loro esistenza, il femminismo è stato ed è ancora pienamente espressione di questo limite.
Per lungo tempo non si è tenuto conto delle istanze e men che meno dell’esistenza delle donne disabili, invisibilizzandole e ignorandole. Gli spazi femministi non sono sempre pensati in modo inclusivo e le persone disabili trovano spesso difficoltà ad accedere ad eventi, risorse, gruppi e a partecipare attivamente al movimento femminista, sia per la mancanza di strutture adeguate, sia per l’assenza di un linguaggio e di una cultura che comprendano e rispettino le loro necessità e le loro esigenze.
Allo stesso modo sono poco rappresentate a livello mediatico e questo rende loro inevitabilmente più arduo sentirsi e dirsi a tutti gli effetti parte integrante del femminismo. Molti passi si sono fatti solo di recente anche grazie alla tecnologia e al mondo digitale dei social, che permette la partecipazione anche senza la presenza fisica, ma l’obiettivo deve essere rendere possibile anche quest’ultima per tutte.
Come per le donne non bianche o lesbiche o povere, anche quelle disabili sperimentano oppressioni derivanti dall’intersezione di più discriminazioni, come un minore accesso a istruzione e occupazione, o come la discriminazione legata agli stereotipi sulla disabilità.
Il femminismo ha tardato molto nel cercare risposte a questi temi, continuando a lungo nel considerare la disabilità come problema da risolvere invece che come espressione della diversità umana. Ricordiamo infatti che l’OMS ha definito la disabilità come condizione dell’umana esperienza in cui ogni essere umano, prima o poi, si trova, temporaneamente o permanentemente (pensiamo a quando ci rompiamo una gamba o quando, divenuti anziani, perdiamo autonomia e abilità). La disabilità quindi è a tutti gli effetti un’identità e come tale merita rispetto e riconoscimento.
Concludendo, come può il femminismo contemporaneo farsi portavoce dell’enorme complessità dei temi in gioco? Non può più essere visto come un movimento che riguardi solo le donne bianche cis occidentali, ma in quanto movimento e filosofia che si prefigge il raggiungimento dell’equità sociale e della parità di tutte le soggettività discriminate deve abbracciare necessariamente le esperienze plurali di tutte le donne e le categorie marginalizzate del mondo: persone nere, indigene, del Sud globale, lgbtqia+, non binarie, disabili, etc.
Deve creare spazi inclusivi fisicamente, virtualmente e concettualmente, cedendo il microfono, dando voce direttamente alle persone interessate e facendosene megafono, lavorando per cambiare la narrazione, promuovendo la complessità senza accontentarsi o fermarsi a facili stereotipi e generalizzazioni, battendosi per leggi e politiche inclusive che eliminino le discriminazioni.
Un femminismo infine che riconosca colonialismo, razzismo, capitalismo come emanazioni dirette del patriarcato e suoi strumenti di oppressione e si batta per contrastarli e distruggerli.
E tutto questo può essere fatto solo attraverso un costante impegno verso l’intersezionalità.
Come possiamo definire pertanto un femminismo non escludente? Intersezionale, antirazzista, antispecista, antiabilista, ambientalista, anticapitalista, anticlassista.
Un elenco tutto tranne che concluso.
Claude




