L’arteterapia è quella materia a cui oggi le persone si avvicinano in punta di piedi, nelle migliori delle ipotesi. Questo perché già di per sé il termine “terapia” in Italia incute timore, si pensi poi se diventi un composto di “arte”. Quando si parla di terapia non si parla sempre di “patologico”.
Anche fosse, porsi di fronte a una richiesta di aiuto è un atto di coraggio e non di viltà. È un diritto e un dovere personale, sociale e morale.
L’arteterapia è da intendersi come un insieme di modalità creative volte ad attivare le risorse della persona, di una coppia o di un gruppo nella relazione d’aiuto. Non è una terapia farmacologica e non ha lo stesso significato che si attribuisce alla psicologia o alla psicoterapia (cugine) con l’aggiunta dell’arte.
L’arteterapia è una moderna via di cura, che infonde però le sue radici nella primordialità dell’Essere Umano. Dagli esordi del suo essere al mondo gli Umani (le donne in primis) hanno voluto lasciare segni grafici e ancor prima suoni e danze provenienti dai tamburi, dalle percussioni corporee, dai rituali, per esprimere e guarire corpo, mente e spirito.
Oggi l’arteterapia è una di quelle professioni “prive di riconoscimento giuridico” facenti parte della norma UNI 11592, “Attività professionali non regolamentate – Figure professionali operanti nel campo delle Arti Terapie – Requisiti di conoscenza, abilità e competenza”, in conformità al quadro europeo delle qualifiche (European Qualification Framework – EQF). Ha un iter formativo della durata di tre anni (successivi a un percorso accademico o equipollente), ma non un albo di settore. Un tema questo che è ingiustamente e inutilmente emarginato. Ricorda qualcosa…o meglio qualcuno… Pare un effetto collaterale ed è negligenza.
La materia ha sufficiente materiale per essere una professione autonoma a tutti gli effetti, ma la ricerca in questo settore è quasi pari a zero.
Perché porre l’attenzione su una materia che non prescrive farmaci? Perché investire su una materia che svela le risorse dell’individuo? Perché mai dare valore a una professione che lavora sull’aspetto immaginativo-simbolico delle persone, in minor tempo rispetto ad altre vie di cura?
L’arteterapia non conviene al capitalismo.
L’arteterapia non conviene neppure a una società patriarcale.
All’arteterapia ci si educa, partecipandola.
Ecco chi mi ricordava… Tutta una categoria di persone che si vuole mettere ai bordi, che se “viste” sono troppo potenti per chi supporta una gerarchia e una società basata sui binomi forte-debole, ricco-povero, uomo-donna, bianco-nero, abile-disabile, binario-non binario. Non ci hanno insegnato, però, che il mondo non vale nulla sottomesso alle gerarchie e solo occhi consapevoli e presenti possono cogliere un ventaglio di possibilità altre, nella varietà.
A un incontro di gruppo, in una biblioteca di quartiere genovese, era stato posto come tema centrale un libro catalogato come femminista. Nel gruppo ognuno ha detto la propria sul femminismo.
Personalmente sostengo che femminismo sia prendersi cura di sé, perché solo così si vive il momento presente. Solo in “con-tatto” con il proprio corpo, la propria mente, il proprio spirito è possibile rimanere in salute e prevenire invece che curare, crescere interiormente. Questa è consapevolezza, essere qui e ora, stare.
Dunque quando una persona, una coppia o un gruppo scelgono di andare da un(a) professionista della relazione d’aiuto, stanno scegliendo di fare qualcosa per sé, ma anche per le persone accanto e per la società.
Non è un capriccio o una fragilità, questo è femminismo: prendere coscienza di sé e del proprio diritto alla vita, per tutte le persone.
L’arteterapia, attraverso tutti i mediatori artistico-creativi, rende possibile la presenza. La persona, in tutte le sue sfumature, può esprimersi in libertà, senza costrutti, sospendendo, almeno per un’ora, due, tre…, il giudizio su di sé e le altre persone. L’arteterapia come abitudine è tempo dedicato a sé, una risorsa che si espande a tutti gli ambiti del vissuto. Crea altre visioni e lo fa nella concretezza dell’elaborato che utente e arteterapeuta si trovano dinanzi. La reale leadership della relazione d’aiuto è dell’utente, che sceglie come rendersi partecipe nel processo creativo e quali emozioni portare.
L’arteterapeuta rimane sempre il punto di riferimento, mantiene nel setting l’attenzione sull’utente e sul terzo elemento: l’elaborato creativo, da cui nascono possibilità di altre risorse.
Da due feedback di un percorso di gruppo:
“Il tuo metodo è neurodivergent friendly. Ha una struttura ed è aperto alle varie azioni, c’è un buon equilibrio tra possibilità di deviazione della regola e la disciplina. Ho sentito nel gruppo un grande rispetto dello spazio altrui, dei confini, anche nel lavorare insieme. Mi sono sentita a mio agio perché sei spontanea, porti a noi delle emozioni anche tue. La mia stanchezza non era un problema. A un incontro hai detto: – come sono stanca oggi. – Allo stesso tempo non ci hai appesantito raccontandoci perché eri stanca. Ci hai chiesto le nostre emozioni. Questo fa sentire normali, a proprio agio. Non è problematico. Sei umana e mantieni sempre un ruolo guida. Dopo il laboratorio io me ne vado che mi sento potente, con grande energia”.
“Di solito mi sento rifiutato in ambienti femminili, mentre con voi no. Si parla tanto di femminismo, ma è una guerra di etichette che vengono prima delle argomentazioni e questo deumanizza e quindi si inquina il dibattito e non c’è un vero rispetto nella libertà di parola e tu, Elena, rientri nella fetta buona del femminismo che ti fa sentire accolto”.
L’accoglienza è alla base dell’arteterapia, dove accoglienza non significa mai “va bene tutto ciò che tu vuoi”. In accoglienza è raccolto il significato più profondo di confini e solo chi non ha mai ricevuto un’educazione sui propri confini non può conoscere e rispettare quelli altrui.
Elena Piano, arteterapeuta ad approccio gestaltico espressivo.